Biografia cadorina
60 anni fa la sensazionale scoperta di Lagole presso Calalzo di Cadore
GIOVANNI BATTISTA FRESCURA
LO SCHLIEMANN CADORINO
di Walter Musizza e Giovanni De Donà
Articolo tratto dal mensile Il Cadore pubblicato nel mese di aprile 2009
Era il 3 aprile 1949 allorché un giovane appassionato calaltino, Giovanni Battista Frescura, estrasse dal terreno di Lagole un idoletto di bronzo ed un manico con iscrizioni paleovenete. Fu una scoperta eccezionale, che ebbe notevole risonanza fra i più illustri studiosi europei. Giovanni Battista era nato a Calalzo di Cadore l’8 giugno 1921 da Matilde e Giuseppe Frescura, primo di cinque fratelli. Scrive di lui la figlia Donatella: “Era un bambino vivace, con spiccata curiosità intellettiva e voglia di conoscere. Dopo la licenza elementare si appassionò alla storia greca e romana, in particolare agli eroi omerici, tanto che perfino i nomi degli animali di casa rispecchiavano queste sue passioni. Iniziò a lavorare come operaio nelle fabbriche della zona e durante il servizio militare, fatto a Roma, completò la sua formazione da autodidatta, sia con corsi serali che per corrispondenza. Libro su libro, costruì una piccola biblioteca, che, dopo l’8 settembre 1943, lasciò in custodia ad una famiglia nella campagna romana. Ritornato a Calalzo vi rimase fino alla liberazione e una volta terminata la guerra andò a riprendersi tutti i suoi libri e lavorò nell’occhialeria Lozza”. Continuò a seguire la sua passione per il mondo antico e, dopo aver studiato gli scritti del Ciani e del Fabbiani, focalizzò i suoi interessi su Lagole, dove, ancora nel 1855, scavando i tufi per il ponte della Molinà, si era trovata una moneta di Valentiniano I. Non molto lontano, al “Cristetto”, nel 1881, erano venute alla luce delle tombe di età imperiale ed una moneta di Caligola, mentre nel 1914 furono ritrovate una cisterna ed una situla con iscrizione presso la stazione ferroviaria. Ma a dare ulteriore certezza intervennero, tra il 1945 e il 1947, i lavori di sterro dell’ing. Vairani per la realizzazione di una gessifera col ritrovamento di ceramiche e pugnali. Tutti questi indizi spinsero GioBatta ad approfondire la ricerca archeologica in quella zona, aiutato a volte dal fratello Lino, da Ezio Frescura e Adelmo Peruz (oggi affermato artista). Ricorda la figlia Donatella: “Tutto il tempo libero dopo il lavoro, il sabato e la domenica era dedicato agli scavi di Lagole". Iniziò da solo una serie di assaggi, continuando su scala più vasta, finché i primi reperti, affiorando dalla terra, gli dimostrarono la fondatezza delle tradizioni e l’importanza archeologica della scoperta. Un articolo dell’epoca lo descrive “eccolo là in fonda ad una nera trincea un giovane a dorso nudo abbronzato dal sole e macchiato di terra e di fango fin sopra gli occhi. Con la sua zappetta sembra accarezzare l’alta parete dello scavo per non lesionare gli eventuali oggetti che incontra lungo il cammino”. Finalmente dopo ritrovamenti di piccoli cocci il 3 aprile 1949, vennero alla luce due statuine di bronzo e un manico con iscrizione. Il ritrovamento portò a due contrapposte sensazioni, la felicità per la scoperta e un timore ancestrale di aver infranto l’integrità di un santuario, ma la passione per la ricerca ebbe il sopravvento. In un’intervista rilasciata all’archeologo Eugenio Padovan, GioBatta ricordava: “…ero emozionato ed intimorito, raccoglievo e mettevo in tasca questi “pesi” e non avevo più il coraggio di guardarli, tanto mi sembravano incredibili. Pensavo di avere trovato le porte dell’inferno, di avere fatto, chissà quale sacrilegio. I primi reperti li trovai il 3aprile del 1949, insieme ad altre due o tre persone… La voglia di scoprire, ma anche la paura mi coglievano allo stesso tempo. Non escludevo nemmeno di essere preda di qualche maledizione per aver profanato magari un luogo sacro. Dopo la scoperta delle prime statuette aspettavo - con qualche apprensione - il trascorrere della settimana senza che mi succedesse qualcosa, contavo i giorni e dicevo tra me e me, siamo già a sabato e non mi è ancora capitato niente. Ma la notte, appunto tra il sabato e la domenica, mi svegliai con la sensazione di non sentire più un piede, di non poterlo più muovere. Mi alzai nel cuore della notte, impaurito, ed il piede era proprio “assente”. Allora, mettendo in pratica la medicina popolare, sbattei un bianco d’uovo e poi me lo spalmai sulla parte malata. Accesi quindi il fuoco nella stufa ed infilai il piede nel forno per ottenere una maggiore efficacia della cura. Tornai quindi a letto. Mi resi successivamente conto che si trattava di una suggestione dovuta e discendente dal significato che emanavano su di me quei reperti bronzei usciti dalle viscere della terra. Continuai a scavare perché la passione e la curiosità prendevano sempre il sopravvento”. Iniziò a scrivere il giornale di scavo, ubicazione, data del recupero, schema stratigrafico del terreno, posizionamento dei reperti ritrovati e vicinanza, se certa, con altri pezzi, disegno del reperto e dimensioni, trascrizione dell’eventuale incisione. Nella sua casa calaltina portava i reperti li puliva con estrema cura e trepidazione, quasi con religiosità: “Mi imbattei in una piastra con una iscrizione, che io pensavo fosse etrusca. Chissà perché! Allora scrissi a Firenze e non alla soprintendenza, perché ne ignoravo l’esistenza. Di qui la mia lettera fu girata a Padova, dove appunto vi era e vi è questo ufficio che si occupa delle testimonianze antiche del Veneto”. Con il consenso alla Sovrintendenza di Padova continuò le campagne di scavi nella primaveraestate del 1949 e del 1950, la campagna del 1951 (agosto- settembre) fu seguita in qualità di assistente della Sovrintendenza come le successive dal 5 al 20 settembre 1952, dal 10 agosto al 15 settembre 1953 ed infine dal 16 agosto al 16 settembre 1956. In seguito fu assunto alla Sovrintendenza di Padova dove trasferì la sua residenza nel 1952, diventando assistente capo agli scavi, dopo aver superato brillantemente a Roma regolari concorsi nazionali. Da allora partecipò agli scavi in tutto il Triveneto, a Trento, Pergine, Altino, San Lorenzo (Bz), Fiè (Bz), Adria, Feltre, Este, Ledro, Mel, Montebelluna, Oderzo, Vicenza, Altipiano di Asiago, Verona, Aquileia, Opeano, Valle e Pieve di Cadore, Asolo, Legnago… Partecipò a due missioni archeologiche dell’Università di Padova in Turchia, nel maggio luglio 1967, quindi in Cappadocia, nelle vicinanze di Kaiseri, nel maggio – giugno 1968. Fu inviato a Lubiana, a Vienna ed a Helsinki per l’organizzazione di mostre e scambi culturali. Terminò la carriera come assistente capo e si ritirò in pensione nel luglio 1982 per poter coltivare le sue passioni, tra le quali sbalzare il rame con le immagini dei cavallini di Lagole e seguire le nuove scoperte, mantenendo fino alla fine stretti contatti con tutte le persone con cui aveva collaborato. Negli anni della pensione viaggiò con la moglie, sempre spinto dalla voglia di conoscere, e ritornò in Turchia e visitò la mitica Troia, la Grecia, la Sicilia, la ex Yugoslavia, l’Austria, l’Ungheria, la ex-Cecoslovacchia, la Francia, San Pietroburgo e Mosca…. Sono ormai passati più di 15 anni dalla sua morte, avvenuta il 25 giugno 1993, e forse il Cadore dovrebbe riconoscere di non aver dato molto alla memoria di questo suo figlio illustre, fattosi davvero tutto da solo.
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