STORIA CADORINA
Cronaca dʼun rogo a Lorenzago nel 1855
DAGLI ALLʼINCENDIARIO DEL “QUADRATO”
di Bruno De Donà
Articolo tratto dal mensile Il Cadore pubblicato nel mese di agosto 2012
Lʼincendio cambiò il volto della borgata di Villagrande. Era corsa velocemente la diceria che il “foghin” fosse un Tremonti, incarcerato e poi scagionato.
Centocinquantasette anni fa, esattamente il 30 luglio 1855, Lorenzago viveva uno dei momenti più drammatici della sua storia. Parliamo dell'incendio che cancellò il volto antico della borgata di Villagrande. Anniversario a parte, ce lo ha riportato alla memoria la manifestazione tenutasi lo scorso mese di giugno all'interno del quadrato attraverso l'illuminazione notturna del paese con fuochi, torce e candele. A quest'immagine di notevole effetto ci siamo accostati rileggendo quanto a proposito di quel lontano drammatico evento ha riferito Felice Fortunato Tremonti nelle sue inedite “Notizie storiche sul Cadore e specialmente di Lorenzago” il cui originale è conservato nell'archivio parrocchiale.
Di quanto accadde Tremonti ha lasciato dettagliata memoria, dato che, come vedremo, la cosa lo toccò spiacevolmente piuttosto da vicino. Apriva il capitolo cinquantesimottavo della sua cronaca raccontando che “La sera del 30 luglio 1855, alle 10, si scoppiò un orribile incendio, che arse in poco tempo una buona parte del paese di Villagrande, a danno di 52 famiglie, case, fienili, vettovaglia e molti mobili.”
Andava quindi subito al sodo: “L'origine di questo incendio resta ignota, ma certo si sa che il fuoco si scoppiò nel fienile di Francesco Fabbro, non assicurato da nessuna Società d'Assecurazione”. Questo Fabbro era un agiato negoziante di legname e alle sue dipendenze, in qualità di domestico, lavorava Giuseppe Tremonti, figlio dello stesso Fortunato, che per via di una certa coincidenza si trovò nella brutta posizione di primo dei sospettati d'essere l'incendiario. Giuseppe dormiva infatti in quel fienile ed era solito fumare il sigaro.
Non ci volle molto ad associare le cose, imputandogli la colpa dell'accaduto.
“Ma il figlio - obiettava il padre -, dormendo saporitamente, fu svegliato da un forte grido, videsi il fuoco sopra la sua vita e con tutta fretta se ne fuggì verso Rivadò, battendo le convulsioni; non sapeva nulla di sé, fino alle ore 6 di mattina, per la qual cosa tornato in sé alquanto, e videsi in mano della Forza cioè gendarmeria”.
Inseguito dalla vox populi e fortemente sospettato dall'autorità inquirente di essere il responsabile di quell'immane disastro, Giuseppe Tremonti fu rinchiuso in cella ad Auronzo e lì stette per una settimana. Nel corso dell'inchiesta vennero sentiti vari testimoni e raccolti elementi utili all'accertamento dei fatti. Non emerse tuttavia alcuna prova per inchiodare il presunto colpevole.
“Fu dichiarato innocente del caso fatale -sottolinea il genitore -, per cui nulla sapeva”.
Ma intanto l'infamante diceria che il "foghin" era lui era corsa rapidamente.
Fortunato Tremonti scrive che “Dopo si cambiò la voce, non basta nel paese solo, ma anche nei paesi limitrofi, sostenendo con tutta forza e vigore che il figlio non era reo di tal fatto, essendo impossibile che, fumando il zigaro, avesse potuto comunicare il fuoco al fieno e, se si fosse addormentato con fuoco presso di sé, sarebbe restato prima vittima del fuoco e non si sarebbe salvato senza qualche segno. Così pure non aveva seco il sigaro né lume, esso dormiva quando il fuoco era in alto, svegliatosi così trovò difficile la fuga”.
Davvero una vera bella memoria difensiva quella del padre proteso a scagionare il figlio in uno scritto che destinava ai posteri.
Ma si sa come vanno le cose nei paesi. Certe etichette son difficili da togliere e restano appiccicate anche al casato. Tanto che con amarezza Fortunato Tremonti lamentava:
“Nessuno ha potuto provare l'accusa, ma intanto la povera famiglia del supposto incendiario sofferse l'infamia per varj giorni, maltrattamenti di parole e di fatti; alla fine si riacquistò il suo onore, mediante l'innocenza”.
Non molto tempo dopo il paese rivisse con terrore la calamità dalla quale era uscito semidistrutto. Ma stavolta il disastro fu scongiurato. Avvenne una sera di settembre e del fatto fu protagonista tale Giosuè Tremonti. Accadde infatti nella sua bottega. Stando a quanto racconta il cronista, le fiamme si sarebbero sprigionate per l'accidentale sfregamento di un lume con uno degli zolfanelli che teneva sul tavolo. Non se ne era accorto e, chiusa la porta, se ne andò a dormire. Delle fiamme, che si vedevano da dietro la finestra della bottega, s'avvidero però Giovanni Battista Piazza fu Pietro e Giovanni Battista De Mas fu Francesco.
Racconta Fortunato Tremonti che “Il De Mas corse al campanile e fece il segnale di fuoco e il Piazza con impeto spalancò la porta e vide che tutto ardeva”.
Accorse gente: “in un attimo era un gridio, un sussurro che faceva terrore, un gemito commovente, che faceva gelar il sangue e pensare all'incendio del 30 luglio, uno sbigottimento da morire dallo spasimo, una confusione non interrotta per un'ora consecutiva”.
Alla fine a forza di gettar acqua l'incendio fu spento. Appena in tempo.
“Del resto - precisava Tremonti -, se non era pronto riparo, la contrada Piazza e Costola restava vittima di un secondo incendio”.
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